In principio era il gioco. La sapienza di Dio giocava con il globo terrestre, come in una cosmica partita di pallone.[1] Poi dal football il Signore passò al nascondino, come si fa con i bambini, manifestandosi e nascondendosi, ora in un roveto ora nel mormorio di un vento leggero. Mosè ed Elia – complici dell’Altissimo in queste partite di cachecache – ne fecero l’esperienza. Il Deus absconditus è un Dio che cerca e che vuole essere cercato: un Dio vicino, eppure totalmente altro, prossimo e inafferrabile, secretissime et praesentissime, come diceva sant’Agostino.

Dio gioca a nascondino già con il primo uomo: «Adamo, dove sei?».[2] E continua con Giona, profeta recalcitrante, e con gli altri profeti e patriarchi. Tutta l’economia della salvezza può essere interpretata come un grande gioco in cui si dispiega l’incomparabile sense of humour del Creatore. Questo gioco del nascondino, come scrive il biblista Gebhard-Maria Behler in un suo saggio, piace appassionatamente anche al Signore glorioso: «Egli si nasconde per lasciarsi trovare dalla nostra fede che lo cerca […] Il Risorto che si è nascosto, che si è finto pellegrino, un giardiniere o un semplice sconosciuto, usa anche con noi la stessa tattica».[3]

La tradizione antica accomuna la Chiesa latina e quella greca nel riferirsi al Deus ludens, all’homo ludens, e persino a una Ecclesia ludens. Consideravano la creazione come il grande gioco del Dio ludico; da un lato giocò con le stelle, dall’altra col sole, e sotto con i pianeti e con premura lanciò la terra, alla giusta distanza dal sole, perché potesse avere la vita. La creazione è una specie di giocosa allegria di Dio, un theatrum gloriae Dei, tanto che Gregorio Nazianzeno (+390) scriverà : «Il Logos sublime scherza. adorna con le sue sacre immagini e per puro piacere e in tutti i modi, il cosmo intero».

Poi qualcosa cambiò, e fra i padri della Chiesa che hanno affrontato il tema gioco-fede, ci troviamo davanti ad affermazioni di rifiuto. Tertulliano affermava che chi avesse promesso alla fonte battesimale di rifiutare le opere del diavolo e dei suoi angeli non poteva partecipare alle manifestazioni di natura diabolica. Lo sport, secondo lo scrittore nord-africano, rende furiosi, collerici e litigiosi. Gli schiamazzi e gli scherni ingiuriosi non si conciliano con la mitezza cristiana. Dal canto suo, Clemente Alessandrino considerava l’ippodromo come «sede di disordine e iniquità». Le affermazioni vanno contestualizzate e comprese a partire dalle sfide alle quali volevano rispondere. A quel tempo gli eventi sportivi non erano solo eventi ludici o culturali, erano eventi rituali e cultuali. Per questo lo sport era strettamente legato all’idolatria. Così Giovanni Crisostomo ricorda che «i giochi pubblici a Dafne erano irrimediabilmente contaminati dalle loro pompose processioni, durante le quali demoni danzavano e al diavolo venivano resi grandi onori». Il problema, quindi, non era di incompatibilità tra sport e fede, ma tra quel tipo di sport e gioco, commisto visceralmente con il paganesimo e i riti idolatrici, e l’attività sportiva. Gli stessi padri e scrittori, infatti, affermavano la dignità del corpo creato da Dio, quel corpo assunto da Cristo. Celebre è la frase di Tertulliano: Cardo salutis caro (la carne è cardine della salvezza). Il suo De resurrectione carnis è anche una teologia dell’incarnazione e della corporeità.

Dai primi secoli veniamo ai nostri tempi.[4] Nel 1948 il teologo Hugo Ranher pubblicò un libro dal titolo Homo ludens,[5] in cui, dando seguito a un lavoro simile dello storico Huizinga,[6] ci dà un’interpretazione teologica e religiosa del gioco: «Attingendo agli obliati tesori degli antichi e della Chiesa dei tempi passati, vogliamo mostrare che cosa  ha perduto l’uomo di oggi che non sa più giocare»[7].

Homo ludens − ci spiega Rahner −  è il tentativo che hanno fatto i latini di tradurre una espressione greca praticamente intraducibile:  ἀνήρ σπουδογελοίος. Per i greci, è quel tipo di sapiente che, avendo visto il limite di ogni perfezione e avendo provato il dolore, la tragedia e il disinganno, sa vivere in lieta ascesi. Serietà, serenità, passione, scelta volontaria di immettersi totalmente in qualcosa che è fuori di sé e che ha ordine, bellezza, regole, tempi, tutto sotto il segno della libertà, dell’inutilità e del non compenso. Questo è il gioco, un’arte che libera la saggezza da ogni fariseismo, da ogni potere, da ogni non necessaria serietà e che vincola l’uomo all’unico necessario. Per gli uomini d’oggi − scriveva Ranher −, inviluppati nell’esasperata strumentalizzazione d’una serietà insensata o nell’insensatezza di una mondanità assoluta, la saggezza del gioco costituisce una necessità redentrice. «Tentiamo, con i padri  e i teologi – proseguiva Ranher – di parlare della “Chiesa che gioca”, dello spazio fisico-spirituale, dunque nel quale il Logos fatto uomo esegue il suo “gioco della grazia”, e dove il cattolico che non si è ancora perduto in un invadente intellettualismo, conciliando mirabilmente la trasfigurazione operata dalla grazia del suo permanere uomo, risponde al gioco della grazia nel gioco dei suoi sacramenti e della sua liturgia. Sicché Chiesa grazia e azione liturgica gli sono pre-ludio (lett.: gioco anticipato) di quella libera serenità che avrà la sua evidenza nell’eterno gioco della visione divina».[8]

Ce n’è a sufficienza per rivalutare la festa e la gioia dello stare insieme. Su questo filone si inserirono originalmente H. Cox con La festa dei folli, [9] il cui sottotitolo spiega trattarsi di un «saggio teologico sulla festività e sulla fantasia» e J. Moltmann con il suo saggio Sul gioco.[10] Non c’è da stupirsi se d’altronde lo stesso san Tommaso, che esprime una positiva valutazione del gioco e della festa, ritiene che siano in colpa e non soltanto maleducati quelli che sono a tal punto seri da non saper ridere, né ammettono che altri lo facciano e non sanno scherzare.[11]

Questa attenzione è giunta fino a noi; alcuni anni fa sugli scaffali delle librerie è apparso il Breve teologia dello sport di Lincoln Harvey,[12] una ricostruzione storica, abbastanza scorrevole e sintetica, di come lo sport sia stato inteso fin dalle origini dal cristianesimo. Nello stesso si può comprendere come, attraverso i secoli, il gioco sia stato sempre presente, e come il suo fascino sia stato avvertito da tutti i popoli che hanno abitato e abitano la terra. Lo sport, in fondo, non è un fenomeno né locale né nuovo; è un fenomeno universale. Ovviamente, i toni e i modi sono notevolmente cambiati, le motivazioni e la sacralità anche, ma resta il fatto che «il gioco è gioco», ed è bene rispettarne le caratteristiche. Vi sono realtà per le quali il concetto di scopo non esaurisce la loro ragion d’essere. Una di queste realtà è lo sport. Esso è – tecnicamente – «autotelico». Ha il suo proprio (auto) scopo (télos). La parola «sport» deriva da «diporto» (disport) che, a sua volta, è formato da «portare» e «fuori» (dis-). Tradotto: quando giochiamo ci portiamo al di fuori delle attività necessarie alla nostra esistenza. Lo sport non può essere «usato» ma solo vissuto. In fondo lo sport è una questione di gioco. Ma la particolarità che l’autore anglicano propone è l’accomunare lo sport al culto. È lo stesso ad affermare che: «Il culto è la celebrazione di chi è Dio; lo sport la celebrazione di chi siamo noi». Dalla lettura del testo emerge come riflettere sullo sport può essere davvero produttivo. Inoltre, può catapultare tutti in un linguaggio da sempre espresso e mai «programmato». La libertà che esprime un bambino nell’atto di giocare è singolare. Una esperienza e una espressione di/da sogno Quel sogno che alimenta la vita di chi, nel gioco, esprime il vero carattere. È lo stesso Harvey a rilevare come lo sport parli della nostra identità più profonda. Il gioco è gioco. E lasciamo che sia così. Uno spazio «altro» con le proprie regole, dimensioni e tempi. Ecco perché accomuna tutti, perché, in fondo, tutti sognano di «giocare».

In principio, dunque, era il gioco. E anche alla fine, quando – come nei dipinti del beato Angelico – gli eletti intrecceranno le loro danze nei verdi pascoli del cielo, sarà il gioco, un’esplosione di festa, gioia senza limiti, premio di vita eterna.

Ma che cos’è il gioco e cosa vuol dire giocare, ora che il gioco sembra avere invaso ogni spazio, ora che la dimensione ludica, da parentesi o pausa qual era, si è imposta come realtà dominante? Se tutto è gioco – non solo gli insulsi giochini televisivi fatti per catturare il pubblico della prima serata –, allora il gioco perde di significato, si trasforma nel suo contrario, in obbligo, in occupazione noiosa e ripetitiva, opprimente come e forse più del lavoro.

«Il gioco, come momento di esercizio disinteressato, che giova al corpo o, come dicevano i teologi, toglie la tristitia dovuta al lavoro, e sicuramente affina le nostre capacità intellettive, per essere tale ha bisogno di essere parentetico», ha ricordato recentemente Umberto Eco. Ma se siamo condannati a giocare, che gioco è? Come il sonno e il cibo, anche il gioco, nelle giuste dosi, ritempra; in eccesso, abbrutisce. Per una parte dell’umanità – quella più ricca – c’è un’alienazione che non si sperimenta più – o non soltanto – nel lavoro, ma che si vive nel gioco ridotto a consumo di tempo, di beni, di alcol, di droghe, a ripetizione ossessiva di gesti senza senso. E questa incapacità di pensare il tempo libero come tempo sottratto al dominio del denaro e del mercato è forse una delle sconfitte più gravi delle grandi ideologie nate dall’illuminismo. Finora si è sempre voluto modificare l’organizzazione del lavoro, ma cosa succederebbe – si chiede il teologo Jürgen Moltmann – se la liberazione dell’uomo cominciasse dal gioco? «Significherebbe sottrarre i giochi al controllo di coloro che si sono specializzati nell’industria del tempo libero. Significherebbe passare da un’immaginazione semplicemente riproduttiva – che ripete anche nel tempo libero gli schemi del mondo del lavoro – a un’immaginazione produttiva, in vista di un mondo più libero».

Quella di Moltmann è ovviamente un’utopia, forse pericolosa come tutte le utopie. Dietro la pretesa di dettar legge in questa materia, c’è spesso lo zampino del totalitarismo, la tentazione di sfruttare il gioco, la festa e lo sport per il controllo delle coscienze o come fabbrica del consenso. Ma non si può dare torto al teologo di Tubinga quando dice che il gioco è senza speranza e perde il suo sale ogniqualvolta serve a farci dimenticare per un po’ di tempo ciò che non si può cambiare, quando è insomma oppio o anestetico: il gioco autentico – secondo Moltmann – è contestazione delle ingiustizie esistenti e prefigurazione di rapporti nuovi; per mezzo del gioco, «si riconosce che le cose non devono essere come sono», «si anticipa e si sperimenta un avvenire diverso, un nuovo stile di vita».

Indispensabile come l’aria che respiriamo, il gioco è però qualcosa di più di un bisogno. È ciò che la tradizione cristiana chiama eutrapelia, la virtù del buon umore, quella forma di distacco e di eleganza spirituale che consente di cogliere e di apprezzare i lati giocosi della vita: virtù di santi, di mistici e di tutti coloro che non esitano a lanciarsi nella danza in risposta all’invito di Cristo. Allora la festa sarà di nuovo comunione, la liturgia un mosaico di canti, di luci e di danze, e la politica sarà restituita all’immaginazione. Cinquant’anni dopo, le affermazioni di Moltmann possono sembrare ingenue o eccessivamente ottimistiche. Ma una fede che non voglia farsi imprigionare nelle gabbie delle rigide formulazioni dogmatiche, che rifiuti le trappole della seriosità, deve essere ripensata come il grande gioco. E una Chiesa che confidi nell’azione dello Spirito, più che nell’ordine delle cerimonie o nel rigore formale e nei paramenti inamidati dei suoi ministri, non può non aprirsi alla dimensione ludica. Anche perché il diavolo – come diceva Friedrich Nietzsche – è lo spirito di pesantezza. Cioè il contrario dell’aerea leggerezza del gioco.

Antonio Mastantuono, pastoralista, vicedirettore di Orientamenti pastorali

 

[1] Cf. Prov 8,30-31.

[2] Gen 3,9.

[3] G.-M. Behler Il gioco di Dio, Àncora, Milano, 1984, 123.

[4] Per una presentazione dell’evoluzione dei rapporti tra cristianesimo e sport rimandiamo a L.Harvey, Breve teologia dello sport, Queriniana, Brescia 2015.

[5] H. Ranher, Homo ludens, Paideia, Brescia 2011.

[6] Cf. J. Huizinga, Homo ludens, Il Saggiatore, Milano 1972.

[7] H. Ranher, Homo ludens, 11.

[8] Ivi, 15.

[9] Cf. H. Cox, La festa dei folli, Bompiani, Milano 1971.

[10] Cf. J. Moltmann, Sul gioco, Saggio sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Queriniana, Brescia 1971.

[11] Cf. S.Th. II-II, q.168, a.4.

[12] L. Harvey, Breve teologia dello sport, Queriniana, Brescia 2015.