Il titolo con in evidenza un “senza preti”, secco, tra virgolette, ha fatto subito pensare a una realtà e forse pure prospettiva che lentamente, ma inesorabilmente si sta verificando. Non ci saranno mai territori senza preti, comunità cristiane soprattutto senza preti, perché vorrebbe dire pure senza Eucarestia, che è il centro necessario di ogni vita cristiana. E non ci sarà mai prete senza Eucarestia, perché è il centro della sua vita e la sostanza del suo ministero di fede. Sono affermazioni confortanti, piene di senso della realtà e di speranza, di cui abbiamo bisogno oggi ancora più capillarmente di 30 anni fa, quando il COP iniziò a riflettere sui primi accorpamenti di parrocchie perché non si scivolasse verso una concentrazione di parrocchie come centro di servizi e riducesse il nostro amore alla chiesa a un requiem. Già allora si metteva a fuoco che non si trattava di un 112 di sopravvivenza di alcuni sevizi dei preti, ma di una nuova missionarietà che parrocchie messe assieme potessero sviluppare nei territori omogenei in cui erano radicate. Si parlava della forza del vangelo che ci fa crescere sempre nel dono di ciascun cristiano a Gesù per il mondo, di un amore alla chiesa quasi viscerale se l’abbiamo sempre voluta servire da una parrocchia viva, aperta, missionaria

 

Il calo del clero e il cambiamento popolare della domanda su Dio

 

E’ innegabile che i preti in questi trenta anni sono diminuiti di numero, hanno una età media alta e che avanza, non vedono alle spalle un ricambio sufficiente a coprire una pastorale come quella che si esprimeva nella loro prima esperienza di preti in parrocchia. L’Italia in questo non è omogenea e la tendenza generale alla carenza di preti è distribuita sul territorio italiano in termini maggiori al Nord che al Sud d’Italia.

Nello stesso tempo si registra anche un calo di partecipazione alla vita della chiesa soprattutto alle liturgie e ai riti. Resta sempre però un 75% di persone che, anche se non sono praticanti, sentono non secondario per la loro vita un pensiero, un sentimento che si apre al trascendente, alla ricerca di risposta a domande di senso impertinenti. Questa si esprime in una socializzazione religiosa ancora diffusa, sicuramente un po’ meno per i giovani. Permane uno zoccolo duro di gente che diversamente dagli anni precedenti oggi mantiene una religiosità che esprime domande sull’uomo, sulla natura, sulla vita sociale che esigono proposte significative per la coscienza moderna. E’ una delle grandi sfide che vengono poste alle comunità cristiane, al mondo religioso, ai preti, che senza falsa modestia non sono sufficientemente attrezzati nel rispondere. Insomma, se mancano i preti, se cambia l’atteggiamento culturale del cattolico medio, se c’è un 75% di persone che si affacciano in modi diversi, nuovi, non continui alla domanda di senso e non necessariamente religiosa, si apre un mondo nuovo, che sfida la parrocchia che vuole riformularsi.

 

Per le sfide di oggi non occorre solo e soprattutto un prete, ma anche una comunità che veramente evangelizza

 

Allora ci mettiamo a lavorare per una forma di chiesa popolare, di parrocchia che si sente trasformata e che dovrà permanere anche se la diocesi si riempirà ancora di tanti preti; perché non è il numero di preti che fa la chiesa, ma il popolo di Dio se, in comunione con il suo vescovo e i  suoi preti,  sa ridire il vangelo alle giovani generazioni, sa confrontarsi con le nuove domande, accetta la sfida dell’ateo ribelle e dell’ateo praticante. Occorre allora superare alcune assolutizzazioni che sono state caricate sulle parrocchie: abbiamo sempre fatto così, il sentirsi continuamente aggrediti e fare della parrocchia una cittadella in difesa; il predominio unico e spesso indiscutibile del clero, dove vengono trascurati i diritti sacrosanti del popolo di Dio che è in maggior parte fatto da laici. Sono atteggiamenti coltivati forse inconsciamente, ma non troppo, contro la centralità dei battezzati. E’ da tempo che nella chiesa è risuonato il grido di Giovanni Paolo II: duc in altum, chiesa prendi il largo. Questa sfiducia da vedova di Zarepta: adesso faccio una focaccia per me e per te, poi aspetto la morte, non si addice mai a nessuna forma ecclesiale. Della serie prepariamo i funerali, faremo piangere tutti, si pentiranno di averci abbandonato e noi moriremo nelle braccia di Dio.

 

Annuncio e testimonianza dalla collaborazione alla corresponsabilità

 

Noi annunciamo la fede che abbiamo o abbiamo la fede che annunciamo? La nostra risposta se è la prima la dice lunga sulla miseria dell’impostazione di chi si sente di avere già il tutto della fede, se è le seconda invece afferma che la fede cresce donandola. Hai difficoltà a vivere la tua vita parrocchiale, hai perso speranza? Duc in altum. Esci, annuncia, proponi la tua stessa ricerca ancora mai conclusa e vedrai che la fede cresce perché la doni o la cerchi assieme.

Un’altra decisione che deve trovare anche sostegno canonico, cioè non lasciata alla sola buona volontà, è quella di aiutare tutta la comunità a passare dalla collaborazione alla corresponsabilità. Collaborazione è: ti prendo quando voglio oppure ho bisogno, poi ti mollo; corresponsabilità è: dobbiamo sempre lavorare assieme ciascuno con la sua vocazione specifica e dentro un progetto costruito in maniera sinodale. La collaborazione nasce al massimo da un tavolo sindacale, la corresponsabilità nasce dal battesimo e porta tutti a sentirsi responsabili. Si stabilisce una certa simmetria tra preti e laici, una lo porta a tutti.

Questi discorsi, che sono ispirati al Concilio Ecumenico Vaticano II, hanno trovato negli accorpamenti delle parrocchie, divenuti “unità pastorali”, una prima esaltante condizione per poter ridire ex novo la vita parrocchiale; stiamo lavorando a questo da più di trenta anni.  Perché questa lentezza? Forse non sono valse tutte le discussioni di teologia pastorale fino a che la carenza di preti, il dovere di sopperirvi ha fatto decidere a tutti i cultori di queste esperienze di concretizzare la chiesa come l’ha voluta in Concilio e l’Italia ha avuto un ottimo documento che la poteva ben aiutare: Il volto missionario di una parrocchia in un mondo che cambia (2004)

Sul nome “Unità pastorali” non ci fossilizziamo, ma vorremo che in tutte la varie denominazioni ci stessero alcuni ingredienti:

non solo un accorpamento di parrocchie, ma una progettualità pastorale che mette assieme varie parrocchie in un territorio omogeneo, con la corresponsabilità di preti e laici su mandato del vescovo, per aprire la chiesa alla missione.

Immediatamente due principi imprescindibili

Non mettere un laico al posto del prete per clericalizzarlo; quindi no alla clericalizzazione  segno di una chiesa piramidale, introversa, autoreferenziale

Non soffocare nei laici la cura accogliente e generosa dei carismi che Dio ha loro dato per una chiesa in uscita, riducendo il servizio a mestiere.  La chiesa non è una curia che deve aumentare il personale di servizio

Per il futuro siamo tutti d’accordo che ogni unità pastorale, avrà bisogno sempre di più di un gioco di squadra; dovrà essere sicuramente sbilanciata sulla vita delle persone come ermeneutica per definire le qualità della parrocchia senza prete e definire sempre meglio con i pastori un modello di Chiesa

Con la nostra settimana di aggiornamento abbiamo voluto sottolineare e precisare quello che nella nuova forma di parrocchia deve esserci necessariamente e suggerire qualche elemento di novità che l’esperienza ci ha suggerito e i tempi esigono.

 

La famiglia uno dei soggetti fondamentali della parrocchia senza prete

 

In molte unità pastorali si è giunti a strutturare un responsabile parrocchiale laico e un presbitero incaricato, proprio per aiutare il presbitero e alleggerirlo di un cumulo di incombenze che, a mano a mano che si formava una comunità viva, si sono moltiplicate. Noi vogliamo proporre l’affidamento a una famiglia, come già si sono fatte belle esperienze a Firenze negli ultimi anni del secolo scorso e oggi anche a Milano con le famiglie missionarie a KM 0. Mettere al centro delle corresponsabilità la famiglia punta su una sorta di epiclesi consacratoria che nel sacramento del matrimonio dà un mandato non solo per costruire una famiglia, ma anche una comunità.

Quindi non si tratta di clericalizzare la famiglia, ma di mettere in circolo e in espressione missionaria tutta la forza di una famiglia che assieme al sacramento dell’ordine diventa corresponsabile nel costruire la comunità anche parrocchiale. Si apre allora una grande attenzione formativa anche negli stessi corsi di preparazione al matrimonio per aiutare a riscoprire il senso e il mandato del sacramento stesso del matrimonio, che consacra gli sposi, oltre che a un amore senza se e senza ma fra loro e nella famiglia, a un ministero per la comunità. Si riconosce così anche un carisma di base necessario per una vita a due donata. Questa collocazione della famiglia nella forma di nuova parrocchia sposta l’attenzione dal compito alla persona e dalla persona alle relazioni. Non sarà facile clericalizzare la famiglia come preti di secondo livello, far diventare servizio principale quello dei riti, trascurando la vera liturgia, che quello dei poveri, come spesso si fa con i nuovi ministeri.

La corresponsabilità anche delle donne è fuori discussione, anzi, anche a partire dal documento finale del Sinodo dei giovani e dalla Evangelii Gaudium, vengono obbligatoriamente date responsabilità formative e di discernimento alla donna entro le strutture di formazione degli stessi presbiteri, oltre che direzioni di uffici di pastorale diocesani e internazionali. Dice il documento finale del sinodo sui giovani

  1. Una Chiesa che cerca di vivere uno stile sinodale non potrà fare a meno di riflettere sulla condizione e sul ruolo delle donne al proprio interno, e di conseguenza anche nella società. I giovani e le giovani lo chiedono con grande forza. Le riflessioni sviluppate richiedono di trovare attuazione attraverso un’opera di coraggiosa conversione culturale e di cambiamento nella pratica pastorale quotidiana. Un ambito di particolare importanza a questo riguardo è quello della presenza femminile negli organi ecclesiali a tutti i livelli, anche in funzioni di responsabilità, e della partecipazione femminile ai processi decisionali ecclesiali nel rispetto del ruolo del ministero ordinato. Si tratta di un dovere di giustizia, che trova ispirazione tanto nel modo in cui Gesù si è relazionato con uomini e donne del suo tempo, quanto nell’importanza del ruolo di alcune figure femminili nella Bibbia, nella storia della salvezza e nella vita della Chiesa.

 

Le equipe di animazione pastorale come prospettiva

 

Si sta sviluppando in molte esperienze di unità pastorale l’affidamento a una equipe come figura pastorale qualificata ed efficace che ha l’attenzione esplicita ad evitare la concentrazione della azione pastorale in una singola persona, a promuovere il confronto a più voci evitando la personalizzazione e configura in piccolo, in seme, la comunità stessa con la varietà dei doni  e delle operazioni.

Si tratta di dare concretezza anche al can.517, con cui il vescovo può affidareciò non solo significa a una comunità di persone una partecipazione all’esercizio della cura pastorale di una parrocchia.

Questa equipe prevede all’interno figure ministeriali diverse: ordinati, consacrati, fedeli laici, coppie di sposi

Un auspicio che esigerà molta attenzione e prudenza diventerà allora anche la codificazione in leggi che sviluppano la professionalità delle persone. I ministeri nella chiesa non si decidono a tavolino, nascono dalla verifica sul campo di quanto una comunità cristiana ha bisogno per essere tale.

A mio modesto avviso queste equipe se non si formano bene possono disaffezionare alla corresponsabilità di ogni battezzato e ritornano a creare centri potere. E’ come la caritas che non si sogna di risolvere i problemi dei poveri, ma si preoccupa di attivare in ogni cristiano la solidarietà e l’attenzione ai poveri. Spesso però noi preferiamo mandare un assegno alla caritas perché provveda lei.

 

 

Una più attenta definizione del ruolo del prete

 

Gli scenari che abbiamo visto proporre nel definire la nuova figura di prete li abbiamo colti anche nella introduzione sul calo del  numero dei preti; voglio sottolineare ancora che esiste un sacro che persiste e si propone come serbatoio di energie per le comunità cristiane e nuove parrocchie, si tratta di affinare la nostra lettura del popolo che serviamo e di rilanciare con determinazione il Kerigma, direbbe papa Francesco nel documento sinodale dei giovani Cristus Vivit. Non ci sono mai condizioni nella vita del mondo che ci possono scoraggiare da una vita pastorale, da dedizione determinata alla vita della chiesa, di slancio di annuncio. Il vangelo non ce lo permetterebbe mai.

Richiamo qui quegli ingredienti che ci sono stati suggeriti nelle relazioni ascoltate:

  1. Io prete sono e resto pastore se faccio vigilanza, se ci tengo alla capacità di aprirmi e aprire al Regno, se non mi piango addosso, se mi ci butto nella vita concreta, se non mi fermo a discernimenti astratti; occorre un passo in più: sporcarsi le mani nella mischia
  2. Devo dare corpo alla fede; la gente a me chiede di essere un uomo di fede, ancor prima che un organizzatore o un celebrante, un uomo innamorato di Gesù, un uomo che sta nella chiesa anche quando lo sa soffrire. La ama come sua madre anche quando si copre di rughe.
  3. Il taglio che a me compete e che devo assolutamente svolgere è il punto di vista sacramentale, la parola più giusta, ma poco utilizzabile è l’ermeneutica sacramentale, cioè uno sguardo su ogni realtà che parte dai sacramenti. Un prete c’è soprattutto per i sacramenti che non sono riducibili a liturgie, ma immettono nella vita vera del popolo che cerca Dio, offre lo stesso Dio, la sua tenerezza, il suo perdono, la sua passione per l’umanità
  4. Non agisco mai da solo, ma sono inserito in una comunione di presbiteri; c’è un noi che ci collega interiormente e ci dà linfa. Non siamo una casta, ma una comunione che permette la cura di ogni anima perché ne avvantaggi sempre la chiesa. Non siamo single, come ogni persona umana, perché siamo figli di una Trinità.

Abbiamo da imitare Gesù Cristo che in un dialogo profondo trinitario ha deciso di offrirsi al Padre con quell’Eccomi manda me che lo portò sulla croce vinta con la Risurrezione.