Simona Segoloni Ruta, docente stabile straordinario di teologia sistematica all’Istituto Teologico di Assisi

 

Evangelii gaudium segna il cammino di recezione del Vaticano II, chiedendoci di prendere posizione spirituale e pratica riguardo le sue possibili interpretazioni. Non lo fa esplicitamente, ma lo fa per quello che insegna e per come lo insegna, dal momento che ci troviamo di fronte a una esortazione che ridisegna l’identità e la missione della Chiesa e lo fa a partire precipuamente da alcune consegne conciliari che hanno segnato una svolta nella coscienza ecclesiale. La ridefinizione della coscienza ecclesiale operata dal Vaticano II infatti tocca ogni aspetto della vita e della missione della comunità cristiana. Gli elementi vengono ribilanciati e riletti, rimessi in relazione e risignificati. Le prospettive precedenti vengono integrate e gli accenti ricollocati altrove. La canzone può sembrare la stessa, ma l’arrangiamento è tale che alcuni nemmeno riescono a riconoscere il motivo che da sempre canticchiano sottovoce. Questa contaminazione entusiasmante fra l’antico e il nuovo spiega le difficoltà di interpretazione, ma, come nella vita di ciascuno ogni novità reale sorge dal vissuto ricompreso e risignificato, così accade anche per la Chiesa. Evangelii gaudium tenta questa ricomprensione di ciò che la Chiesa ha vissuto, perché essa possa ringiovanire (LG 12) ed essere quel segno della comunione con Dio e fra gli uomini (LG1) di cui il mondo ha un disperato bisogno. In tutto questo la ridefinizione del laicato è decisiva. A un primo sguardo si potrebbe pensare che essa sia una questione interna alla Chiesa, una sorta di necessaria puntualizzazione delle differenze, quasi come se si dovesse decidere quale giocatore difende al centro e quale sulla fascia. Invece la ricomprensione del laicato decide l’identità stessa della Chiesa: non si tratta di decidere in quale ruolo gioca un giocatore, ma che sport è quello che stiamo giocando. Cambia cioè la fisionomia intera del soggetto collettivo Chiesa e, soprattutto, cambia il suo modo di rapportarsi all’altro. Il rapporto con l’altro però è, di nuovo, l’aspetto che determina l’essere stesso della Chiesa, poiché essa è inviata all’altro. Pertanto, il modo in cui pensa questo invio, il modo in cui realizza l’incontro e lo organizza, è ciò che decide se la Chiesa vive o meno la sua natura estroversa, o «in uscita» per usare le parole di papa Francesco. La comprensione dell’identità del laicato è centrale proprio perché realizza o nega l’estroversione ecclesiale e quindi la missione, che è il motivo e il principio vitale della stessa esistenza della Chiesa.

Ripensare i laici ripensando la Chiesa

Proviamo a rendere ragione del perché proprio la ricomprensione del laicato porti a ribilanciare correttamente l’identità ecclesiale sulla missione e quindi sull’estroversione. I due elementi – ricomprensione del laicato ed estroversione ecclesiale – si intrecciano, ma non sono stati elaborati insieme come una dottrina studiata a tavolino. Piuttosto la vita della Chiesa e le condizioni della storia hanno premuto sulla coscienza ecclesiale perché li recuperasse e così spingesse in avanti la comprensione di se stessa. Infatti la Chiesa vive immersa nella storia degli uomini che è la sua stessa storia, quindi non si comprende mai se non a partire dal vangelo e dalla storia stessa che la provoca e la interroga, fino a che essa discerne ciò che lo Spirito suggerisce e così si ripensa e si ristruttura, in continuità e in novità. Questo processo ovviamente, essendo storico, non è esente da errori, devianze e peccati, come anche vede revisioni, riforme e conversione. Quando il concilio Vaticano II venne celebrato già la Chiesa era stata abbondantemente provocata e la questione del laicato era all’ordine del giorno. In modo particolare la consapevolezza che le masse si stavano allontanando dalla Chiesa e che la società e la cultura si andavano pensando e strutturando senza alcun riferimento all’insegnamento ecclesiale, aveva spinto i pontefici e anche i teologi a riflettere su quale aiuto potesse venire a questo proposito dal laicato, che di fatto si trovava a vivere immerso in questo contesto sociale oramai estraneo alla fede. In un primo momento si pensa al laicato come a una risorsa in dotazione alla Chiesa per tentare una riconquista della società o almeno per esercitare su di essa una qualche influenza. Questa influenza, anche se con il temuto pericolo di diventare ingerenza politica, non va considerata necessariamente in termini negativi, nella misura in cui esprime l’interesse della Chiesa per ha l’altro. Eventualmente il problema è comprendere in che modo essa possa e debba tendere all’incontro con l’altro, ma sarebbe una situazione decisamente più grave – al punto da far dubitare di essere ancora davanti alla Chiesa di Cristo – quella in cui la comunità cristiana non si interessasse di coloro ai quali è mandata. Ciò che vogliamo notare qui però è che nel momento in cui la Chiesa si sente estranea al mondo in cui vive si volge al laicato. La coscienza della Chiesa viene dunque costretta dalla storia a ripensare il ruolo dei tanti credenti ritenuti ai margini della Chiesa. Fino a che ci si pensava in un contesto di pacifica cristianità ci si poteva anche non faceva problema una visione clericale di Chiesa, in cui tutte le funzioni ecclesiali venivano svolte dai ministri come un servizio elargito perché gli altri potessero vivere cristianamente. Ma quando le masse si sottraggono all’insegnamento ecclesiale e non ne riconoscono più l’autorità, quando si deve cominciare a rendere ragione in ogni contesto di ogni aspetto della fede, questo modello non funziona più. E mentre i laici credenti sono spinti ad approfondire la propria fede, a vivere la propria appartenenza ecclesiale e a interrogarsi su come possano portare il vangelo in un contesto sociale che sembra oramai restio ad accoglierlo, la Chiesa intera si trova a interrogarsi sul proprio rapporto con il mondo e sulla propria capacità di collocarsi nella storia. Questi interrogativi spingono a ripensare il proprio essere Chiesa e quindi a mettere in discussione che questa coincida con i ministri ordinati, perché se così fosse non ci sarebbe alcuna possibilità di compiere la missione ecclesiale là dove solo ha senso: in mezzo alle donne e agli uomini del proprio tempo ormai estranei all’istituzione ecclesiale che i ministri rappresentano. Il concilio segna il vertice di questo ripensamento. La Chiesa si sente inviata agli uomini di oggi, con i quali cammina, perché possano vedere con quale grande amore il Padre ami tutti in Cristo. Inoltre la Chiesa si scopre, proprio mentre si sente compagna degli uomini del suo tempo, un popolo che cammina nella storia e che è costituito da tutti i battezzati. Questa ricomprensione propria dell’ultimo concilio tiene insieme: estroversione della Chiesa, collocazione nella storia, identità propriamente ecclesiale anche per i laici. Questi elementi si intrecciano e si richiamano così profondamente che è difficile dire che cosa sia venuto prima e se uno di essi stia in un rapporto di causa/effetto rispetto agli altri. I laici sono infatti quei credenti che portano la Chiesa «in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo» (LG33). In questo modo sono essi quelli che la sbilanciano all’esterno, che la collocano nella storia in compagnia degli uomini: le permettono di essere se stessa dunque, perché una Chiesa introversa e fuori dalla storia, incapace di incontrare e annunciare, non sarebbe più Chiesa. I laici sono così la figura esemplare se si pensa la Chiesa in stato di missione,[1] cioè nel suo stato proprio. Siamo lontanissimi non solo dalla passività e insignificanza ecclesiale sostenuta prima del concilio, ma anche dalla divisione nei compiti nella quale si è concretizzato il tentativo conciliare di recuperare il laicato alla sua piena dignità ecclesiale. Partendo infatti dal presupposto che i laici sono definiti dalle loro condizioni di vita, che sono quelle ordinarie, ovvero quelle di tutti gli uomini e le donne del loro tempo, si è pensato di valorizzare la loro dignità ecclesiale dicendo che queste condizioni ordinarie – indicate con la categoria di «mondo» o «secolo» – non sono, come si pensava prima, un ostacolo per la vita cristiana, ma al contrario un’occasione per portare il vangelo ovunque ci siano esseri umani. Celeberrimo a questo proposito il passaggio di LG in cui il concilio recepisce questo tentativo di valorizzazione della vita laicale: «Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio […] A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore» (LG 31). Se non che la sottolineatura della differenza di condizioni che voleva riconoscere come pienamente ecclesiale anche la vita e il servizio tipico dei laici, è stata poi interpretata come una divisione dei compiti che non solo è difficile da sostenere – sta occupandosi del mondo una mamma che insegna a pregare? E sta occupandosi di Dio un ministro ordinato economo di un grande convento? – ma finisce per riproporre una gerarchia: chi si occupa delle cose di Dio è più Chiesa di chi si occupa delle cose del mondo. Si applica una specie di schema per cui tutto è buono, anche il mondo, ma Dio – e quindi quelli che si occuperebbero delle sue cose – è più importante del mondo[2]. Molto probabilmente la divisione degli ambiti, che poi vengono comunque gerarchizzati nonostante si tenti di sostenere il contrario, è funzionale a mantenere l’impostazione piramidale, in modo da non dover modificare la struttura della Chiesa e non rivedere in che modo responsabilità e decisioni possano venire esercitate.

Evangelii gaudium

L’intenzione degerarchizzante – ovvero l’idea che la Chiesa sia un popolo sacerdotale unito in un solo corpo dall’unico Spirito – e declericalizzante – ovvero l’idea che la Chiesa e ciò che le è proprio appartenga a tutti i fedeli e non solo ai ministri – del concilio viene fortemente ripresa da papa Francesco. È evidente che la Chiesa è il popolo di tutti i battezzati: tutti sono carismatici, tutti vivono il sacerdozio battesimale e tutti insieme sono il popolo sacerdotale a servizio dell’umanità nelle fatiche che vive nella storia concreta, segnata oggi dalle minacce alla pace, alla giustizia e al creato[3]. Si apre così il discorso su come il vangelo debba trasformare il mondo, determinando frutti di giustizia, di pace, di liberazione. Questo popolo, rivolto al servizio degli uomini in modo che questi riconoscano nell’azione amante e liberante della Chiesa l’amore del Padre – amore di cui i credenti rendono ragione quando gli uomini con cui lottano fianco a fianco contro le ingiustizie gli chiedono conto – è la Chiesa descritta in Evangelii gaudium. In una Chiesa così rivolta all’esterno, china sui bisogni quotidiani e concreti di tutti, pronta a riformarsi e chiamata a stringersi in unità anche per discernere ciò che è da credere e da fare[4], è chiaro che i laici non possono che essere protagonisti. Non c’è più alcuna divisione degli ambiti e anche le nette distinzioni fra gli stati di vita vengono meno. Infatti se prima si è tanto insistito sulle condizioni ordinarie di vita dei laici, capaci di portare la Chiesa dove non può stare se non per loro mezzo, ora ci si accorge che tali condizioni sono quelle della Chiesa intera: possono i religiosi e i ministri ordinati mantenere uno stile che li separi e li ponga da parte o – Dio non voglia – sopra gli altri, in una Chiesa pensata in uscita e a servizio? Le tante forme di consacrazione secolare già incrinano la divisione classica tra gli stati, come anche i tanti diaconi permanenti sposati e i tanti laici dediti anche professionalmente al servizio ecclesiale, per non parlare dei presbiteri ordinati della Chiesa greco-cattolica. Forse è giunto il momento di pensare le diverse condizioni dei credenti come un reciproco richiamo a ciò che è proprio di tutti e della Chiesa intera:[5] se i ministri si fanno carico dell’apostolicità di tutta la Chiesa, dedicandosi alla cura di tutti perché il popolo possa testimoniare l’autentico vangelo ovunque, i religiosi sono posti come segno, mentre vivono la vita cristiana estroversa di tutti, del fatto che ogni credente appartiene a Dio ed è a lui dedito, infine i laici richiamano la Chiesa alla propria estroversione, mentre mostrano nella loro carne la salvezza che raggiunge ogni ambito dell’umano. Fatto salvo ciò che è proprio dei ministri che assumono un compito specifico nella Chiesa, una divisione troppo netta degli stati di vita può finire per essere fuorviante. La Chiesa vive una sola vita, spesa per l’umanità intera. Questa consapevolezza oggi ha portato non solo al recupero della dignità e della santità ogni esistenza cristiana,[6] ma alla certezza che solo la Chiesa unita nell’amore e nel reciproco servizio possa essere una testimonianza coerente del Risorto. D’altra parte le diverse condizioni dei credenti sono frutto del contesto storico, quindi possono essere ridefinite come già lo sono state in passato: Paolo viveva la vocazione apostolica eppure lavorava per mantenersi, Aquila e Priscilla erano sposati, lavoravano, ma erano anche responsabili della Chiesa che si riuniva in casa loro e si occupavano di evangelizzare e formare evangelizzatori. Nel nostro contesto potrebbero di nuovo darsi queste contaminazioni, che di fatto sono tali solo per noi che viviamo dopo la netta distinzione degli stati di vita. Comunque, alla fine di questo percorso che ha visto recuperare la dignità di tutti i credenti e il valore della condizione laicale, si è giunti a valorizzare non solo l’unità della Chiesa, ma anche una evangelizzazione collocata nella storia concreta e nella quotidianità. Non è l’istituzione-Chiesa che evangelizza rapportandosi con i potenti – come è anche accaduto – ma i credenti, che nel contatto interpersonale danno carne all’amore del Padre per coloro che incontrano e poi spiegano quanto accade a coloro che ne chiedono ragione. «Essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada» (EG 128). A tutte queste ricomprensioni, però, non sono seguite le riforme necessarie perché quelle diventassero operative. Di fatto i laici non hanno diritto di parola, né di decisione, né predicano ordinariamente. La loro esperienza, le loro condizioni di vita, il loro impegno in ogni ambito dell’umano sono ciò che la Chiesa opera, ma la Chiesa non sembra saperlo o sembra saperlo troppo poco, mettendo tutto questo patrimonio di vita, santità e testimonianza ai margini. Nascono così alcune contraddizioni e alcuni rischi che la Chiesa postconciliare si trova ad affrontare e che il magistero di papa Francesco mette in risalto.

I rischi

Il primo rischio da notare è quello di perpetuare il clericalismo o, per controcanto, clericalizzare i laici. È sotto gli occhi di tutti quanto si fatichi ad abbandonare un’idea clericale di Chiesa. In fondo, istintivamente, tutti pensano che un ministro ordinato, ancora di più un vescovo, per non parlare del papa, siano più Chiesa, più santi, più di Dio di un laico, qualunque sia la fede o la testimonianza di questo. La piramide che è ancora in piedi non riguarda soltanto la facoltà di decidere o di predicare, ma riguarda lo statuto ecclesiale dei diversi ordini – e volutamente riprendo la terminologia medievale – di cristiani. Certamente si è diffusa la convinzione che anche i laici possano avere parte attiva nella vita della Chiesa, ma sempre per concessione. Questa è purtroppo la percezione che a tutt’oggi si riscontra come diffusa e che determina una reazione contraria in quel laicato che, forte della propria scelta cristiana, rivendica invece uno spazio maggiore. Tale reazione spinge a voler occuparsi della vita intraecclesiale esattamente come fanno i ministri, si vuole essere parte attiva, protagonisti: Chiesa a tutti gli effetti. Solo che mentre si fa questo non ci è allontanati dall’idea che la Chiesa sia costituita dai ministri ordinati e che quindi l’attività ecclesiale coincida con quello che tradizionalmente è stato riservato a questi ultimi. Il risultato è che i laici somigliano sempre di più a ministri ordinati «depotenziati». Si prediligono i servizi liturgici e alcune responsabilità catechetiche, mentre si sfugge o si attenua l’impegno per l’evangelizzazione o nella società civile. I laici, naturalmente preposti a sbilanciare la Chiesa verso l’esterno, finiscono così per riportarla verso l’interno. Il gioco è fin troppo comodo: i laici riguadagnano il terreno perduto per secoli, vedendo la fine della loro marginalizzazione, godendosi un nuovo spazio ecclesiale senza la fatica che chiede far sì che la Chiesa possa essere sale là dove c’è bisogno; i ministri ordinati, invece, possono concedere qualcosa senza cambiare, senza perdere nulla, perché in realtà questa concessione di spazi non chiede loro di modificare né il proprio servizio né la struttura ecclesiale di cui restano i gestori. È un processo tipico della conservazione del potere, è accaduto anche nei rapporti fra i sessi: la rivendicazione da parte delle donne di spazi paritari agli uomini ha aperto possibilità un tempo impensabili, ma ha lasciato strategicamente immutata la struttura patriarcale, per cui di fatto il sistema gerarchico che vede gli uomini sempre in cima alla piramide è del tutto inalterata. Il clericalismo è un nemico pericoloso per la Chiesa, perché le impedisce di volgersi all’esterno, le fa vedere come prioritario ciò che costituisce la sua vita interna (liturgia, condivisione fraterna, formazione spirituale, ecc…) perdendo di vista l’evangelizzazione e il servizio per la giustizia e la pace. In questa Chiesa i laici che si impegnano nella vita civile e politica possono pensarsi come esecutori del dettato gerarchico, tutti tesi a promuovere la dottrina sociale della Chiesa già confezionata dal magistero e non a rinnovarla continuamente sulla base delle proprie esperienze e delle proprie competenze. Nella definizione delle dottrine i laici, immersi nelle situazioni della vita che tutti gli uomini e le donne vivono, dovrebbero apportare un contributo creativo, porre domande, porsi criticamente, in modo da far sì che la propria vita cristiana, autenticamente vissuta in dimensioni che almeno in questo periodo storico di solito sono estranee ai ministri, possa fecondare la predicazione della Chiesa e farla crescere nella verità. Ciò accade molto poco e, se accade, si pensa che i laici in questione non stiano più nell’obbedienza ecclesiale. Uno dei molti esempi che si potrebbe fare è quello della dottrina sul matrimonio e la procreazione: difficile che si possa dare un contributo meno significativo di un ministro celibe se si sono passati anni a vivere cristianamente nel matrimonio, circondati di amici e fratelli che sono nella stessa condizione e condividono con noi gioie e sofferenze. Invece la mentalità clericale porta a pensare che più dell’esperienza cristiana e della condivisione ecclesiale che i laici possono avere – oltre alla formazione specifica di alcuni – vale il sacramento dell’ordine, che quindi vale di più del sacramento del matrimonio anche quando si tratta proprio di matrimonio, o, nei casi più moderati, porta a pensare che vale di più l’esperienza di chi confessa persone sposate rispetto a quella di chi è sposato. Sarebbe come dire che le costanti condivisioni con i miei amici e colleghi presbiteri e le loro confidenze, mi fanno più esperta di un prete nell’esperienza ministerale, o che un direttore spirituale è più esperto di una donna riguardo l’essere femmina, perché ha ascoltato e consigliato molte donne. Il clericalismo porta con sé anche il rischio che i laici si sentano marginali nella vita ecclesiale. Vivono un’esperienza di fede significativa, ma la Chiesa non ha per loro uno spazio che permetta a questa esperienza di assumere una visibilità: non possono predicare, non possono far valere il loro pensiero, non possono prendere decisioni o contribuire a esse. Una delle soluzioni possibili per sfuggire al senso di frustrazione è entrare a far parte di movimenti e/o associazioni ecclesiali. Pur tenendo presente il fatto che anche aggregazioni e movimenti possono cedere al rischio clericale di cui sopra ho parlato, bisogna considerare che il processo istituzionalizzante che conduce alla costituzione di aggregazioni di credenti è proprio della vita della Chiesa. Esso è un bene perché permette di condividere oltre alla fede in Cristo anche finalità, stili, opere, ecc… stringendo relazioni più intense e rendendo il proprio operato più efficace. Detto questo bisogna anche considerare che, in una Chiesa che sembra faticare a dare un reale spazio istituzionale a un laicato oramai consapevole della propria dignità cristiana, le associazioni e i movimenti diventano troppo spesso un luogo di rifugio per i laici, un luogo in cui finalmente possono esprimersi, avere diritto di parola, discutere, servire, discernere insieme. Si può finire, ovviamente, per andare a due diverse velocità. Pensiamo a un ministro generale dell’Ordine francescano secolare, che ovviamente sarà laico e può essere anche donna. Nell’aggregazione di credenti di cui fa parte prende decisioni, insegna, guida, condivide alla pari con laici, religiosi e ministri, e questo a livello mondiale con qualche migliaio di persone che lo/la prendono come riferimento autorevole da un punto di vista istituzionale, mentre nella struttura ecclesiale di base, compresa la propria parrocchia, non ha alcuno spazio istituzionale possibile, se non per concessione del parroco e a sua totale discrezione. Può accadere che questa situazione spinga i credenti più motivati a raccogliersi in aggregazioni e a considerare la propria appartenenza ecclesiale di base in seconda battuta, con gravi conseguenze non solo per la propria coscienza credente, ma per l’unità della Chiesa. Che cosa succederebbe se i credenti percepissero la propria appartenenza non a partire dalla Chiesa locale – come è sempre stato ed è inevitabile che sia – ma a partire dalle aggregazioni di cui fanno parte spontaneamente e meritoriamente? Si perderebbe la fisionomia ecclesiale di sempre: non si tratterebbe più di un popolo, capace di accogliere chiunque e chiamato a costruire l’unità solo nella condivisione del Vangelo, ma di un insieme di aggregazioni/istituzioni ciascuna con il suo specifico fine/stile tutte accumunate dalla fede in Cristo. Non per niente si ripetono nella relazione fra i movimenti e le chiese particolari gli stessi problemi che tradizionalmente si avevano fra queste e gli ordini religiosi, con un altrettanto già noto tentativo di saltare il problema rivolgendosi direttamente alla Chiesa di Roma. In queste tensioni gioca anche l’idea che i movimenti/aggregazioni garantiscano un’appartenenza ecclesiale più consapevole e formata – che sarebbe coerente con l’insegnamento dell’ultimo concilio – e così si scredita l’esperienza credente di coloro che non appartengono a nessun movimento/associazione e che spesso vengono ritenuti non consapevoli o passivi, a prescindere dal cammino di fede o dalla concreta vita vissuta. A questo proposito possiamo richiamare quanto Evangelii gaudium dice sui carismi, donati per rinnovare ed edificare la Chiesa, essi non sono «un patrimonio chiuso, consegnato a un gruppo perché lo custodisca; piuttosto si tratta di regali dello Spirto integrati nel corpo ecclesiale, attratti verso il centro che è Cristo, da dove si incanalano in una spinta evangelizzatrice. Un chiaro segno dell’autenticità di un carisma è la sua ecclesialità, la sua capacità di integrarsi armonicamente nella vita del popolo santo di Dio per il bene di tutti. […] è nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si rivela autenticamente e misteriosamente fecondo» (EG 130). Anche nei movimenti poi si nota la perdita del carattere laicale, perché gli impegni dovuti all’appartenenza alle diverse associazioni assorbe quasi per intero le forze che il credente può mettere a disposizione e così porta a ricadere in quella introversione ecclesiale di cui già abbiamo parlato: i laici finiscono per dedicarsi a incontri, catechesi e cura dei fratelli, disattendendo allo sbilanciamento della Chiesa verso l’esterno. Può capitare persino che la consapevolezza fin troppo forte di appartenere a un gruppo di credenti li porti ad assumere nei confronti delle persone che incontrano un atteggiamento duro, offrendo spesso la testimonianza della propria fede ma molto più raramente mettendosi di fianco alle persone che incontrano per condividere con loro l’impegno per un mondo più giusto e pacifico. In questa vicinanza e in questo servizio, che è il cuore del sacerdozio dei credenti, dovrebbe risplendere tutto l’amore che il Signore ha per quelli che incontriamo sulla nostra strada. Invece il forte senso di appartenenza fa sentire il bisogno di rimarcare il proprio essere diversi fino a separarsi da quelli che si incontrano. E così l’introversione ecclesiale frutto del clericalismo finisce per generare un’altra devianza già vista: la contrapposizione con gli altri che diventano il nemico ostile al vangelo, invece di essere quelli cui siamo inviati perché possano sentire – in qualunque modo riescano – di essere gli amati del Padre.

Conclusione

L’Evangelii gaudium richiama all’estroversione della Chiesa che deve uscire e annunciare «a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno» (EG 23). Inoltre segna con cura il percorso per una presenza ecclesiale che non fugga la storia né l’incontro con gli altri, perché «evangelizzare è rendere presente nel mondo il regno di Dio» (EG 176) e «dal cuore del vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice» (EG 178). Infine, con grande forza, papa Francesco ricorda che «l’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio» (EG 111). E questo popolo è il fermento di Dio in mezzo all’umanità (cf. EG 114) in cui «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa [ad intra ndr] e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare a uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati» (EG 120). Il nodo, forse, è ancora la necessità di interiorizzare il nuovo rapporto con gli altri, con quelli che non si sentono parte della Chiesa e che non credono in Cristo. L’altro, ormai da tantissimi secoli, per una Chiesa che viveva in un contesto tutto cristiano in cui persino il regime politico e sociale era parte dell’attività e del potere ecclesiale, era semplicemente il nemico. Ancora oggi, spesso, percepiamo chi non crede come un problema, perché non accetta i nostri valori o perché mette in discussione un ordine passato che spesso per i credenti – seppure erroneamente – viene ritenuto parte integrante della fede. Questa diffidenza nei confronti dell’altro, che spesso risponde con una durezza difficile da scalfire, impedisce alla Chiesa di essere se stessa, perché essa è Chiesa solo nella misura in cui incontra, serve, annuncia all’altro e questo può accadere solo nel momento in cui l’altro viene conosciuto e amato. A conservare questa dimensione strutturante la vita ecclesiale hanno sempre pensato i laici, per loro condizione esistenziale immersi nella compagnia degli altri, fianco a fianco con loro, finanche nello stesso letto. Mi pare si possa concludere che la recuperata dignità ecclesiale dei laici non giungerà al proprio scopo fino a che non sbilancerà la Chiesa intera verso l’esterno, ma questo non accadrà fino a che la Chiesa – e i laici in primo luogo – non scopriranno negli esseri umani che hanno di fianco un dono, una risorsa, qualcosa di prezioso da amare e servire, offrendo loro anzitutto il vangelo, perché quando si ama qualcuno gli si offre tutto ciò che si ha, a partire da quello che si ritiene più prezioso. «Confessare un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano implica scoprire che “con ciò stesso gli conferisce una dignità infinita”. Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio. Confessare che Gesù ha dato il suo sangue per noi ci impedisce di conservare il minimo dubbio circa l’amore senza limiti che nobilita ogni essere umano. La sua redenzione ha un significato sociale perché “Dio in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini”. Confessare che lo Spirito santo agisce in tutti implica riconoscere che egli cerca di penetrare in ogni situazione umana e in tutti i vincoli sociali» (EG 178).

Al laicato il compito, per la posizione privilegiata offertagli dalle sue condizioni di vita, di richiamare la Chiesa a tutto ciò con forza, vivendo come un privilegio la compagnia quotidiana dell’altro che Dio ama e come un’occasione propizia per testimoniare là dove egli vive l’amore del Padre.

(in Orientamenti Pastorali n. 10/2018, EDB, tutti i diritti riservati)

[1] G. Canobbio, Laici o cristiani? Elementi storico-sistematici per una descrizione del cristiano laico, Morcelliana, Brescia, 2017 [terza edizione riveduta].

[2] Cadono in questo inganno anche le esortazioni post-sinodali Christifideles laici e, soprattutto, Vita consecrata.

[3] Anche la struttura di Evangelii gaudium dice questa comprensione: la riflessione sulla trasformazione della Chiesa, nonostante le minacce all’impegno comunitario verso questo rinnovamento, quindi la centralità dell’annuncio per la vita della Chiesa, per passare poi alle concrete condizioni storiche in cui la Chiesa deve portare il vangelo, per poi chiudere sulle dinamiche spirituali dell’evangelizzazione.

[4] La dimensione sinodale della Chiesa per cui i credenti non solo operano ma discernono insieme è stata più volte richiamata da papa Francesco, in particolare nel discorso tenuto nell’ottobre 2015 a 50 anni dalla restituzione del sinodo dei vescovi da parte di Paolo VI. Questi richiami convergono solennemente nella recente costituzione apostolica Episcopalis communio che rivede lo statuto del sinodo dei vescovi.

[5] Cf. S. Segoloni Ruta, «Il rilievo ecclesiologico della vita consacrata» in Convivium Assisiense, 1(2015), 231-271.

[6] Si veda l’esortazione apostolica di papa Francesco, Gaudete et exsultate.