Fortunato Ammendolia, informatico e animatore della comunicazione e della cultura del COP, studioso di pastorale digitale e di «opinion mining» in ambito religioso

 1. La seconda generazione: accezione plurima, problematiche, azione

L’espressione “seconda generazione” (di immigrati) fu coniata negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento, quando gli studi sulla migrazione dal continente europeo verso quello americano iniziarono ad acquisire organicità. Essa, infatti, fu utilizzata dai ricercatori della Scuola di Chicago per indicare «i nati dagli immigrati» stanziatisi permanentemente negli Stati Uniti d’America. Nel 1997, un articolo comparso sull’Annual Review of Sociology evidenziava un significato più ampio dell’espressione. Zhou, infatti, scriveva: «La letteratura emergente sulla nuova seconda generazione […] ha preso in analisi non solo i ragazzi nati negli Stati Uniti – la vera seconda generazione – ma anche quelli immigrati giunti negli Stati Uniti prima di divenire adulti». Oggi, i sociologi concordano nell’asserire che il concetto di «seconda generazione» –genericamente, «l’insieme degli individui nati da almeno un genitore immigrato» – è indicativo di una molteplicità di situazioni (tra di esse, l’avere i natali nel Paese d’immigrazione oppure il ricongiungimento). Si tende così a parlare di «seconde generazioni», in un’accezione plurima del termine. Un’interessante chiave di lettura per una definizione di «seconda generazione» è quella proposta dal sociologo Rubén G. Rumbaut. «Egli assume che vi sia una sorta di continuum, scandito da situazioni socioculturali e problematiche educative diverse, tra il soggetto nato nel Paese ricevente da genitori stranieri, e quello che arriva intorno alla maggiore età, dopo aver ricevuto una prolungata socializzazione nel paese d’origine».[1] La sua visione graduata – una tipologia ormai classica – permette di distinguere tra «seconde generazioni»: generazione 2.0, cioè i nati e cresciuti nel Paese di immigrazione;[2] generazione 1.75, cioé chi emigra in età prescolare (0-5 anni) e svolge il percorso scolastico nella società ricevente; generazione 1.5, cioè coloro che hanno iniziato il processo di socializzazione e la formazione primaria nel Paese di origine, ma emigrano prima della pubertà (6-12 anni) e completano il percorso scolastico nel Paese di destinazione; generazione 1.25, ovvero i soggetti che emigrano dal Paese di origine tra i 13 e i 17 anni, arco di età centrale nell’adolescenza e nella formazione scolastica superiore.[3]

Per un approfondimento delle problematiche relative alla «seconda generazione», riteniamo sia utile riportare ampi stralci di un articolo di pedagogia e sociologia interculturale della ricercatrice Alessia Malta: «L’interesse scientifico nei confronti di questa nuova realtà sociale è dettato dalla convinzione che con la seconda generazione si assista a un sostanziale cambiamento nei rapporti classici tra immigrati e società ospite. La presenza sempre più numerosa della seconda generazione comporta infatti, all’interno delle nostre società, nuove problematiche spesso poco affrontate, in quanto si è sempre immaginato un rientro in patria degli stranieri di prima immigrazione. La seconda generazione ha invece prepotentemente portato alla ribalta un nodo cruciale per le nostre società, ovvero il passaggio da immigrazioni temporanee a insediamenti durevoli, se non definitivi.[4] Secondo un approccio sociologico, dunque, è osservando la seconda generazione che sarà possibile valutare l’esito dell’immigrazione nelle nostre società, discutere sul futuro delle nostre comunità e sul nuovo volto che stanno assumendo.[5] […] Il problema della seconda generazione nasce dal fatto che i suoi componenti, essendo cresciuti nelle nostre società, hanno acquisito le medesime aspettative dei coetanei autoctoni, e dunque sono giovani culturalmente integrati che rifiutano le occupazioni di basso profilo e la qualità di vita accettate dalla prima generazione. Tuttavia agli occhi della società ospite restano gli stranieri da integrare. Ed è chiaro, pertanto, che la stessa definizione di seconda generazione, loro attribuita, contribuisce ad alimentare un atteggiamento discriminatorio. […] Per i giovani di seconda generazione si dimostra senza dubbio complesso affrontare il problema della costruzione della propria identità, un’identità in questo caso, come afferma Favaro, “doppia e molteplice”.[6] Si tratta infatti di giovani che, vivendo tra due culture differenti, sono chiamati a far tesoro di questa doppia appartenenza, sfruttando in modo positivo sia il legame con la cultura originaria della famiglia sia quello che li avvicina alla nuova realtà verso la quale proiettano il loro futuro. Ma proprio la famiglia in molti casi può essere fonte di disagi e compromettere i legami al suo interno. Questo vale in particolare per i giovani che in prima persona vivono il processo migratorio e l’esperienza del ricongiungimento familiare in seguito ad un lungo distacco da uno o da entrambi i genitori e, allo stesso tempo, vivono il dramma di una seconda separazione da chi (nonni, zii, parenti) in quel lungo periodo si è preso cura di loro. Sono giovani ai quali viene chiesto di ricostruire un rapporto con genitori che conoscono poco, e spesso con fratelli e sorelle nati nel paese ospite che non hanno mai visto prima. Si chiede loro di progettare una nuova vita, in un nuovo paese e con una nuova famiglia, dovendo in molti casi affrontare, allo stesso tempo, il problema della lingua e il difficile inserimento scolastico. […] Accade, infatti, che i giovani di seconda generazione si confrontino con insegnanti e operatori che, pur essendo validi professionisti, in molti casi conoscono poco i percorsi migratori e le implicazioni psicologiche che comportano. Difficili e complesse, infine, risultano per molti anche le relazioni con i coetanei. Un problema dovuto in particolare alla mancanza di adeguati spazi educativi e di aggregazione che tengano conto delle differenze e che siano in grado di educare non solo i nuovi arrivati ma anche i coetanei autoctoni al rispetto della diversità.[7] Non è difficile comprendere quanto le problematiche appena descritte siano state, sin dall’inizio della comparsa del fenomeno migratorio nel nostro territorio, al centro dell’attenzione di operatori sociali ed educatori. Tuttavia oggi, a queste circostanze, si affiancano prepotentemente richieste ulteriori, esito di disagi di diversa natura, che necessitano di un’attenzione particolare e di una rapida soluzione per poter garantire quella migliore qualità di vita che a gran voce la seconda generazione reclama. Disagi generati essenzialmente dalle aspettative di chi, essendosi formato nelle nostre società, nutre interessi, conduce gli stessi stili di vita e condivide identiche abitudini di consumo dei coetanei autoctoni. Pertanto rifiuta il modello d’inserimento sociale e culturale sperimentato dalla prima generazione e chiede nuove occasioni lavorative a più alto prestigio sociale ed economico.[8] La principale conseguenza di queste nuove esigenze ricade proprio sui rapporti con la famiglia, determinando crisi generazionali non poco significative. Generalmente, infatti, grazie anche alla frequenza scolastica, i giovani di origine immigrata assumono presto un ruolo di «cerniera» tra culture molto diverse tra loro,[9] tuttavia proprio per questo tendono a differenziarsi culturalmente dai genitori.[10] In molti casi questi ultimi sono, allo stesso tempo, animati da desideri contrastanti nei confronti dei figli: possono, ad esempio, desiderare un’integrazione di successo nella società di cui fanno parte, ma temere che possano in questo modo allontanarsi troppo dalla cultura originaria.[11] Ciò determina nei loro ragazzi un profondo stato di disagio che li porta a scontrarsi con uno dei due mondi di appartenenza, se non, nel peggiore dei casi, con entrambi. Ma ciò che oggi rappresenta la problematica più scottante in materia di seconda generazione resta il tema del diritto di cittadinanza».[12] Per molti membri della seconda generazione, infatti, si tratta di sentirsi italiani senza poterlo essere. Oggi per diventare cittadini italiani si fa riferimento alla legge 91 del 5 febbraio 1992. Tralasciando l’acquisizione di cittadinanza iure sanguinis (oppure iuris communicatio, nel caso di minore straniero adottato), perché almeno uno dei genitori ha cittadinanza italiana, riportiamo nella seguente immagine l’iter per l’acquisizione della cittadinanza quando i genitori siano entrambi immigrati; nelle altre due figure, la “proposta di legge” per l’acquisizione della cittadinanza con lo ius soli temperato e lo ius culturae, «congelata» il 28 dicembre 2017 a causa dello scioglimento anticipato del Parlamento. [13]

Figura 1- Legge 91/1992 (Acquisizione cittadinanza, con genitori stranieri)

Figura 2 – Acquisizione della cittadinanza con lo ius soli temperato

Figura 3 – Acquisizione della cittadinanza con lo ius culturae

E’ opportuno completare questo quadro sul tema del diritto di cittadinanza per le «seconde generazioni» con qualche dato statistico ricavato da un’indagine ISTAT pubblicata nel 2016: «Oltre alla cittadinanza ha un peso non irrilevante nella percezione della propria appartenenza l’età in cui si è entrati in Italia. Tra i ragazzi arrivati dopo i dieci anni, si sente straniero più di uno su due (quasi il 53%) mentre solo il 17% si sente italiano. Per i nati in Italia la percentuale di chi si sente straniero si riduce al 23,7%, mentre sale al 47,5% quella di coloro che si percepiscono italiani. Valori simili a quelli riscontrati per i nati in Italia si osservano anche per i nati all’estero ma arrivati prima dei sei anni».[14]

Ci piace porre sulla bocca di quel 47,5% queste parole: «Vorremmo […] che ci venga riconosciuta la cittadinanza italiana secondo un principio di ius soli, e non più solo in virtù dello ius sanguinis. […] È da bambini che nasce l’istinto della consapevolezza di essere cittadino di un certo Paese. […] Oggi siamo come alberi che crescono radici in un terreno che poi ci viene negato e noi non ci rassegniamo ad essere alberi senza radici. I tempi sono già maturi per permettere a tutti noi di essere italiani e fieri di esserlo, non solo nello spirito, ma finalmente anche sulla carta».[15] La storia di Yefter è poi una delle tante di chi avrebbe potuto già essere cittadino italiano, ma non lo è per questioni burocratiche: «Sono nato a Roma da genitori eritrei. Oggi ho 32 anni, ma sono ancora cittadino eritreo. Non per scelta, ma perché i miei genitori non mi hanno iscritto subito in Comune, mi ci hanno iscritto dopo cinque anni. Così, quando ho fatto la richiesta di cittadinanza, me l’hanno respinta. Ci sono rimasto male. Mi sono sentito umiliato». Entrambi questi «messaggi» sono chiari e incisivi, e denotano una notevole maturità e consapevolezza della propria condizione. Alessia Malta, passando dalle problematiche all’azione, così scrive: «Numerose sono quindi le misure da adottare nell’immaginario comune affinché questa generazione possa realmente sentirsi a casa e possa superare la sensazione di vivere come stranieri in patria. Misure che richiedono un impegno maggiore proprio da parte degli autoctoni, chiamati ad accettare il nuovo volto della nostra società sempre più orientata al métissage e al superamento di una visione dicotomica autoctoni/stranieri. Ecco perché tutte le considerazioni appena fatte confermano quanto poco utile sia l’espressione “seconda generazione”, all’interno della quale non solo rientrano di fatto numerose categorie di persone con storie, legate all’immigrazione, molto diverse tra loro, ma si annida anche il pericolo di perpetuare un modello etnocentrico di società composto da un noi e da un loro. La categoria “seconda generazione”, in altre parole, di fatto non agevola né il tentativo di fare chiarezza sul nuovo volto della realtà attuale, né il compito della pedagogia interculturale chiamata a occuparsi dell’educazione delle nuove generazioni. Non agevola nel processo di superamento dell’idea che gli immigrati siano una risorsa provvisoria: è infatti indispensabile comprendere che non abbiamo più di fronte il singolo lavoratore che, per motivi economici, attraversa le frontiere in cerca di un lavoro, nel tentativo di risollevare la situazione economica della famiglia, in vista di un rientro in patria. […] Non agevola nel facilitare il cambiamento d’immagine di una nazione caratterizzata da una popolazione omogenea: essa dovrà cedere il passo a una visione pluralistica dove, come criterio dell’appartenenza nazionale, non conti più solo il sangue, ma soprattutto fattori come il processo di socializzazione e la residenza.[16] Tale riconoscimento dovrà essere rafforzato dal superamento dell’integrazione subalterna e dall’apertura a un’integrazione qualificata. […] Sarà compito dell’educazione operare un cambiamento di visione culturale. Come afferma Besozzi è urgente oggi acquisire una nuova prospettiva, quella transnazionale, intendendo con ciò “una rottura dell’appartenenza culturale univoca a una comunità o a un gruppo” e quindi “la formazione, sotto l’influsso di una molteplicità di contatti ed esperienze, di un’identità plurima e aperta”.[17] Una prospettiva, questa, che mette in luce i limiti di una concezione lineare del processo di acculturazione, e del concetto stesso di seconda generazione. Tale concetto, infatti, finisce per avvalorare l’idea di una differenza tra figli di immigrati e giovani autoctoni. Una differenza che, però, gli stessi giovani di seconda generazione non vivono, giacché pur immersi in contesti locali, sono sempre più intrecciati, oggi, con la dimensione globale favorendo così scambi e contatti con realtà diverse che li rende simili nonostante le diversità.[18] Alla luce di queste considerazioni appare dunque evidente come l’educazione interculturale oggi sia da pensare rivolta soprattutto ai soggetti autoctoni non ancora pronti ad assumere una concezione pluralistica e “negoziata” dell’appartenenza nazionale. La prospettiva della formazione di una cittadinanza europea in grado di conciliare la pluralità di culture è un obiettivo da raggiungere per le seconde generazioni, ma prima ancora per gli italiani che, rispetto a queste, sono ancora molto lontani da un atteggiamento di attraversamento della propria frontiera. Ciò porterà al superamento della stessa definizione di seconda generazione, dal momento che i giovani di domani non apparterranno più a dei background omogenei dal punto di vista etnico, culturale o religioso. Pertanto la popolazione italiana evolverà nella direzione di una società popolata da italiani con origini diverse, ad esempio africane, cinesi o cingalesi».[19]

È ben chiaro che, per un cambio di mentalità, urge basilarmente attivare processi che mettano «di fronte» immigrati e autoctoni, e che al necessario passo base dell’inclusione nella società ospitante segua quello dell’integrazione. Un agire che Caritas italiana ha già perorato dieci anni fa, con una riflessione attenta agli studi di sociologia e al magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Queste riflessioni sulle «nuove generazioni» intendono consegnare alle comunità cristiane – che nel loro DNA hanno l’alterità – l’invito a promuove un’integrazione che poggi su tre concetti chiave, ovvero «rispetto dei diritti fondamentali», «uguaglianza» e «partecipazione».[20] Perché tutto questo si realizzi occorre conoscere l’altro. «Non si tratta semplicemente di porre l’accento sulle differenze culturali, ma sui rapporti tra le culture differenti, fondati sullo scambio bidirezionale, equilibrato e personale, che presuppone l’assunzione vicendevole di elementi culturali nel rispetto delle singole identità. L’intercultura è un nuovo sistema di pensiero che interviene nel campo della comprensione dell’altro e può diventare il nuovo paradigma educativo. La crescita culturale e sociale non avviene solo grazie ai metodi educativi convenzionali: scuola, libri ecc., ma anche grazie alla relazione costruita e gestita quotidianamente con l’altro. Nella relazione, l’altro non è semplicemente uno specchio attraverso il quale la persona si rivede e ripensa alla propria identità ma è anche un esempio, uno stimolo, una persona con sentimenti, valori e percezioni. La differenza diventa quindi uno stimolo al cambiamento per entrambi gli attori della relazione in base al principio dell’interdipendenza. Dunque il metodo per costruire una società integrata sulla base di relazioni costruttive tra individui e gruppi non può che essere interculturale nel senso più pieno del concetto inteso come interazione, scambio, reciprocità, superamento delle barriere e solidarietà attiva».[21]

  1. Un faccia a faccia che chiede responsabilità e desta solidarietà

 «Mi chiamo Said Mahran. Ho 26 anni. Sono nato e cresciuto a Firenze, e da come parlo, dal mio accento, avrete capito che questa è la mia città. I miei genitori sono algerini, ma vivono in Italia da trent’anni, e si sentono parte integrante di questa società e di questo Paese. Tra quattro giorni, io e la mia famiglia dobbiamo lasciare l’Italia e tornare in Algeria, e non per scelta, ma per forza, per cavilli burocratici, valutazioni arbitrarie. Siamo stati espulsi. Una parola che faccio anche fatica a pronunciare e a concepire. E tornare, tornare in Algeria, è un termine che io non comprendo, con condivido. Perché io in Algeria non ci sono mai stato. Per me è un luogo lontano, esotico, visto in TV, in foto, o nelle mille storie raccontate dalla mia famiglia. E allora mi chiedo, vi chiedo: a quante cose dobbiamo ancora rinunciare, a quante possibilità, a quante prospettive, a quanti sogni? Noi, ragazzi della seconda generazione, italiani di seconda categoria, non italiani! Legati a fogli, a permessi di soggiorno che ogni anno cambiano colore, ma che rimangono catene umilianti, che legano la nostra anima, le nostre prospettive, alla lugubre realtà di non potersi mai identificare in una patria o in una cultura. Io sono come gli altri. Sono come quelli che si chiamano Hamid, Souad, Miguel, Conchita. Sono come quelli che si chiamano Baba Diop. Siamo di colori, religioni, idee diverse, ma siamo tutti uniti in un profondo dolore, un dolore perpetrato da azioni che non posso che definire retrograde, razziste, ingiuste. La costituzione di questo Paese è stata scritta da uomini e donne che hanno lottato per i diritti civili di libertà dall’oppressione. Noi siamo oppressi. E voi, cittadini veri, siete vittime esattamente allo stesso modo […] vittime del sistema politico che sta usando la mia questione, la nostra questione, per tirare voti da una parte o dall’altra. Ma io tornerò, tornerò in Algeria, mi ricostruirò una vita aiutando mio padre a ricostruirsi la sua a sessant’anni, dopo trent’anni che è stato qua in Italia. Lascerò i miei amici, la mia ragazza, le mie strade, la mia casa, la mia cultura, le mie passioni. Tutto. Il mio futuro. Li lascio qua, con voi, in questa sala. Con la speranza di istituire dentro di voi un profondo senso di colpa, un senso di grande ingiustizia, per quello che sta capitando a me, alla mia famiglia, e a tutti quelli come me. E non vi chiedo nient’altro se non di guardarvi dentro, senza voltarvi per una volta dall’altra parte, e di pensare alla nostra storia, alla vostra storia, traendo le conclusioni a cui la vostra morale e la vostra onestà vi permettono di giungere. Mi chiamo Said Mahran, e sono italiano, come voi!». Si tratta del discorso che il protagonista del film «Sta per piovere»[22] pronuncia nella biblioteca della Galleria degli Uffizi di Firenze; frasi che indicano la bufera che si è abbattuta su di lui, su suo fratello e suo padre Hamid (la madre è morta), e comunicano la necessità di cambiare la legge 91 – sul diritto di cittadinanza – del 1992. «Ciò che è narrato nel film, infatti, non è una vicenda “al limite”» (Rashid). Said, della «seconda generazione pura», studia e lavora come panettiere part-time; ha la ragazza ed è ben integrato, e tifa per la nazionale italiana. Siamo nel 2012. Sono i giorni degli Europei in Polonia e Ucraina, e l’Italia approda in finale con la Spagna: per Said è un sogno che si avvera. Il regista usa la metafora calcistica a presagio degli eventi: dall’Inno di Mameli cantato a squarciagola da Said prima del fischio della partita del 1° luglio – il suo «sentirsi» italiano – alla cocente sconfitta della nazionale con uno 0 a 4 – l’infausta notizia che a suo padre è stato revocato il permesso di soggiorno[23] e che niente e nessuno cambierà il verdetto di espulsione per un nucleo familiare «che fa squadra» –. «Sta per piovere», è ben più di una denuncia ai limiti di una legge: non sfugge certamente che la vicenda che vivono i fratelli Mahran solleva la questione dell’identità delle «seconde generazioni» e apre anche al tema della xenofobia. «Buona fortuna, a voi! Ne avete molto più bisogno di me». Quest’augurio di Said, al termine del suo discorso nella biblioteca, è rivolto a quegli italiani che assegnano al termine «immigrato» un’accezione negativa, che hanno paura dello straniero e della sua cultura, e non riescono a comprendere che chi porta un nome straniero può sentirsi italiano e collaborare per la crescita della nazione a lor pari.

  1. Una storia di migrazione, «spot» per lo ius culturae

«Sabato prossimo mi recherò nell’isola di Lesbo, dove nei mesi scorsi sono transitati moltissimi profughi. Andrò, insieme con i miei fratelli il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e l’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Hieronymos, per esprimere vicinanza e solidarietà sia ai profughi sia ai cittadini di Lesbo e a tutto il popolo greco tanto generoso nell’accoglienza».[24]

A ispirare l’opera cinematografica «L’amore senza motivo»[25] − uno dei ventitré cortometraggi presentati al concorso «MigrArti 2017»[26] è proprio il viaggio compiuto da papa Francesco il 16 aprile 2016, un incontro tra Chiese e dolore umano – quello dei profughi nel campo di Mòria –, «uno straordinario segno di unità e di amore divino» (Tsamatroupolou). Il corto-documentario, infatti, ha come protagonista il giovanissimo Majid Alshakarji, uno dei 12 profughi siriani – di fatto, tre nuclei familiari di credo islamico – che Francesco, al termine di quella visita a Lesbo, volle con sé a bordo dell’aereo papale e che, in spirito di collaborazione, la Comunità di sant’Egidio s’impegnò a ospitare a Trastevere, per accompagnarli nel disbrigo delle pratiche burocratiche inerenti alla richiesta di asilo in Italia e in un processo d’integrazione. «Quel campo rifugiati … era da piangere!» (Francesco). Quindici minuti di filmato in cui Majid si racconta. Parla delle proprie origini, del dramma della guerra e della fuga dalla propria terra, del naufragio e della paura della morte, del salvataggio e dei giorni nel campo profughi, della visita di Francesco e del tempo del riscatto, il cui inizio è segnato da queste parole: «Basta a piangere! Grazie Papa. […] Per la famiglia Alshakarji, una nuova vita era iniziata». «Cosa pensa di fare qui in Italia?». Alla domanda di una giornalista, Majid risponde: «Prima di tutto vorrei imparare la lingua italiana, per capire e farmi capire. Dopodiché vorrei continuare i miei studi per diventare un dentista». In realtà, per Majid, diventare dentista è il «piano B», ciò che farebbe contento il padre: il suo sogno nel cassetto è diventare un rapper. Così, tra scuola, sostegno scolastico e percorso di lingua e cultura italiana, avvia un progetto: realizzare un brano rap, con l’intento di coinvolgere più persone possibili, aperto al consiglio dai rapper romani. Il brano avrebbe trattato dell’amore tra un suo amico siriano, oggi in Turchia, e una ragazza; un amore che Majid definisce «senza motivo», ovvero un amore che tutto dona e nulla chiede in cambio, amore gratuito. Di «amore senza motivo», di fatto, Majid ha fatto esperienza in prima persona. In una delle ultime sequenze del filmato, rivela: «Non ci crederete! Non ci avevo ancora pensato, ma l’ultima volta che ero stato al mare era quando quel gommone stava affondando, e anche noi con lui. Però non è andata così. Sono vivo! Non so dirvi perché, ma è lì che ho capito che c’è un amore senza motivo. È una cosa strana. È come quando non sai perché l’hai fatto, ma hai fatto qualcosa di buono per qualcuno e non sai il motivo. Perché nessuno te lo avrebbe chiesto. Come le persone che mi hanno salvato. Così, senza motivo! Perché io non avevo nulla da dargli in cambio, proprio niente». Ed ancora, è «amore senza motivo» quello che l’ha fatto giungere in Italia, ed è «amore senza motivo» l’opera di quanti quotidianamente lo aiutano a integrarsi e a trovare una nuova identità. Ben si comprende, quindi, il titolo del cortometraggio. La vicenda di Majid fa emergere argomenti a sostegno di quel criterio di acquisizione della cittadinanza definito ius culturae. Majid arriva in Italia con la sua famiglia all’età di quindici anni, pertanto appartiene a quella «seconda generazione di immigrati» che Rumbaut etichetta come «1,25».[27] Majid, nonostante il suo sentirsi «mezzo arabo e mezzo italiano» – si nota ad esempio quando deve scegliere la lingua per il brano rap – dimostra che è davvero possibile abbracciare la lingua e la cultura italiana, senza conflitti e in un periodo inferiore ai sei anni (cf. fig. 3). Ciò è reso possibile dalla volontà del protagonista di apprendere e dalla qualità delle relazioni. Majid, ai fini di una comunicazione che permetta un confronto e faccia passare elementi di lingua o cultura italiana, suggerisce: «Se uno straniero ha sbagliato davanti a voi, non dovete stare zitti. No! Siete tenuti a correggerlo. […] È una cosa molto bella!». E rileva: «Stranieri, nuovi italiani, italiani, si stava bene e tutti insieme». «L’amore senza motivo» apre a concetti come «inclusione», «integrazione» e «interculturalità»: essi sono anzitutto evocati dai volti delle persone di etnie diverse presenti, senza forzatura alcuna, nei fotogrammi che «scrivono» il percorso di Majid sul suolo italiano.

(tratto da Orientamenti Pastorali n.1-2/2018, EDB, Bologna 2018 tutti i diritti riservati)

 

[1] M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna, 2005, 6.

[2] La categoria generazione 2.0 può essere pura – ovvero i nati da genitori immigrati – o mista – ovvero i nati da un genitore immigrato e uno autoctono.

[3] R.G. Rumbaut, «Assimilation and its discontents: between rhetoric and reality», in International Migration Review, vol. 31, n. 4, 1997, 923-960.

[4] Cf. M. Ambrosini – S. Molina (a cura di), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2004, 1.

[5] Cf. Idem, XI – 5.

[6] Cf. G. Favaro – M. Napoli (a cura di), Ragazze e ragazzi nella migrazione, Guerini Associati, Milano, 2004, 7.

[7] Cf. Idem, 7-8.

[8] Cf. Ambrosini – Molina, Seconde generazioni,  XIV.

[9] C. Sirna, Pedagogia interculturale. Concetti, problemi, proposte, Guerini Studio, Milano, 1997, 17.

[10] Cf. G. Favaro – M. Napoli (a cura di), Come un pesce fuor d’acqua. Il disagio nascosto dei bambini e dei ragazzi immigrati, Guerini e ass., Milano, 2002, 90.

[11] Cf. Idem, 49-51.

[12] A. Malta, Seconda generazione: una categoria utile per le future linee di ricerca in pedagogia interculturale?, Quaderni di intercultura, Anno II/2010, ISSN 2035-858X.

[13] Le tre immagini sono riprese da «Avvenire», 18 settembre 2017.

[14] ISTAT, Integrazione delle seconde generazioni, indagine condotta nel 2015, 15 marzo 2016.

[15] Messaggio lanciato in occasione della conferenza stampa «Forte chiaro. Cittadinanza ora!», tenutasi presso la Camera dei Deputati nel novembre 2009.

[16] Cf. Ambrosini – Molina, Seconde generazioni.  p. 47.

[17] Cf. E. Besozzi – M. Colombo – M. Santagati, Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Franco Angeli, Milano, (2009), nota p. 17.

[18] Cf. Idem, nota p. 16-19.

[19] Malta, Seconda generazione: una categoria utile per le future linee di ricerca in pedagogia interculturale?

[20] Cf. Caritas italiana, Caritas diocesana di Verona, Un futuro possibile.

[21] Idem, 22-23.

[22] Regia di Haider Rashid; genere: drammatico; produzione: Radical Plans, Italia 2013; durata: 91 minuti.

[23] Il padre perde il lavoro a seguito del suicidio del direttore della fabbrica dove per trent’anni ha lavorato, quindi non può rinnovare il permesso di soggiorno.

[24] Francesco, Misericordia io voglio e non sacrifici (Mt 9,13), udienza generale, 13 aprile 2016.

[25] Regia di Paolo Mancinelli; genere: drammatico; produzione: Maiora Film, Italia 2017; lingua originale: italiano; durata: 15 minuti. L’8 settembre, alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, l’opera ha ricevuto la menzione speciale della giuria di Migrarti 2017 «per la capacità di saper narrare una storia semplice che ha fatto il giro del mondo in maniera fresca e immediata», e il premio «Roma Lazio Film Commission».

[26] Con il progetto «MigrArti», il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo intende promuovere le condizioni e le opportunità per far conoscere le culture di provenienza degli immigrati e in particolar modo le «seconde generazioni». Paolo Masini, coordinatore del progetto, spiega: «Noi crediamo che la paura dipenda dalla poca conoscenza dell’altro». «MigrArti», quindi, si pone come iniziativa giustappunto di conoscenza, per una visione plurale della vita, utilizzando gli strumenti culturali delle arti dello spettacolo. I cortometraggi presentati a «MigrArti 2017», realizzati sia da associazioni sia da società di produzione cinematografiche, presentano storie di vita e di diverse culture che vivono il processo d’integrazione nel tessuto sociale del nostro Paese, tracciando uno spaccato dei «nuovi italiani». Tra i titoli oggetto di menzione, unitamente a «L’amore senza motivo», va evidenziato «La Macchia», «per la capacità di raccontare in pochi minuti e  in maniera ironica il tema della cittadinanza e della sua attuale legislazione».

[27] Cf. Primo focus.